Un sentiero che attraversa un’altura, all’ombra di pini delle Alpi, ci conduce a Yad Vashem, il Monumento dell’olocausto e dell’eroismo. È un po’ straniante trovarsi in un paesaggio che ricorda il Centro Europa, qui, a sud del Mediterraneo. Ma non è casuale: è la volontà dei sionisti di portare, nella terra prescelta come loro patria, lo spirito europeo, moderno e razionale, a plasmare l’ambiente a propria immagine e somiglianza. A poca distanza da questo luogo, si trova il monte che porta il nome di Herzl, il primo e più importante teorico del sionismo; qui sorge la sua tomba, vicina a quelle di diverse autorità israeliane, presidenti, ministri e giudici.
Probabilmente ci si aspetterebbe, da un ebreo israeliano, solo uno sguardo commosso e palpitante nei confronti della Shoah. Itamar, invece, intende affrontare il percorso all’interno del Museo dell’olocausto di Gerusalemme in maniera del tutto critica, problematica, cercando di smontare i miti che la retorica nazionalistica ha costruito nel tempo. È inutile dire che affronta la questione con rispetto assoluto, considerando anche il fatto che una parte della sua famiglia nei campi di concentramento ha perso la vita. Tuttavia, ci spiega, la memoria culturale è un potente strumento utilizzato a fini politici e spesso chi tenta di sottoporla a un vaglio critico rischia personalmente, proprio come Itamar che dal Museo dell’olocausto è stato licenziato per avere espresso opinioni considerate poco adeguate al luogo. E la stessa vicinanza tra questo museo e le lapidi che portano i nomi delle personalità eminenti dello Stato di Israele è indice di una sospetta interferenza tra conservazione di una memoria universale e perseguimento di fini particolari.
Avvinandoci all’ingresso del museo siamo circondati da alberi, ognuno contrassegnato da un cartello che riporta un nome; si tratta dei nomi dei giusti, ovvero di quelle persone che in Europa hanno dato aiuto, in qualche maniera, agli ebrei che si trovavano in pericolo. Ironico il fatto che gli alberi dei giusti siano di carruba. Hanno tutti i semi uguali. Eppure l’uguaglianza in questa terra sembra sconosciuta.
Ovviamente, il percorso che si snoda nelle diverse sale, alternando reperti storici a schermi che proiettano le testimonianze dei sopravvissuti, colpisce in maniera potente e drammatica. Itamar, però, si sofferma spesso a evidenziare le contraddizioni che emergono all’interno di questa narrazione ufficiale, mostrandoci forzature e rimozioni; in altri casi, traccia paralleli tra i meccanismi di ghettizzazione degli ebrei da parte di tedeschi e dei palestinesi a opera degli israeliani.
Un discorso del genere rischia di apparire quasi scandaloso o blasfemo, ma più probabilmente appare come un modo corretto di avvicinarsi a un ricordo comune e a un dramma collettivo, utilizzandolo per comprendere e per agire dinamiche attuali.
Uscendo dal museo ci si trova su un terrazzo panoramico che incornicia, come una cartolina, la veduta in lontananza di Gerusalemme, quasi fosse la conclusione consequenziale di un percorso che inizia con la tragedia di un popolo e si conclude con il suo trionfo, con la fondazione dello stato di Israele, con un lieto fine.