Incontriamo Ronnie Barkan in un parco di Tel Aviv di fronte al mare. Il luogo non è scelto a caso. Da un lato si erge uno dei mille grattacieli della città, un lussuoso albergo. Dall’altro, dietro ad un cancello, circondato da un muro, si intravede un cimitero in rovina, uno dei pochissimi segni della presenza di una comunità palestinese cancellata dalla moderna città di Tel Aviv. Ronnie è israeliano, è un attivista degli Anarchists against the Wall e ha le idee chiarissime. Israele non è uno stato democratico. Porta avanti un progetto di sistematica repressione di un gruppo etnico, e nel vocabolario questa è la definizione di apartheid. Non è facile essere come lui. Ce ne sono pochi. Non ha fatto il servizio militare. Sostenere di avere problemi di salute mentale o tendenze suicide è un efficace metodo per essere riformati, ma devi sperare che il tuo datore di lavoro comprenda che trattasi di una scusa che nasconde la tua obiezione di coscienza. Israele deve ritirare l’occupazione del ’67 e deve farsi carico dei diritti dei rifugiati palestinesi. Questi sono i punti fermi della sua battaglia. Eppure il problema principale, ci racconta, è l’indifferenza. Puoi vivere a Tel Aviv senza incontrare palestinesi, o meglio, senza vederli. E senza vederne le tracce, la storia. Qui rimane un piccolo cimitero nascosto da un muro. Al posto delle case palestinesi che circondavano la moschea, oggi demolite, ci sono bar e ristoranti del lungomare. E poi c’è Jaffa, dove le modeste case degli arabi insieme a quelle altrettanto modeste di alcuni ebrei vengono confiscate a poco a poco e soffocano tra condomini super-lusso con piscina fronte mare. Puoi sdraiarti sul prato verde del promontorio di Jaffa senza sapere che il prato cresce sulle rovine di quelle case. Se sei israeliano sai che c’è un problema, che non sei solo in questa terra, ma difficilmente troverai qualcuno che abbia un’opinione critica come quella di Ronnie. Non c’è un partito di sinistra che sia antisionista. L’esercito è considerato sacro, afferma l’esistenza di uno stato ebraico. Se sei un ebreo israeliano ti educano a pensare che l’esercito difenda la tua stessa esistenza. Oppure penserai che entrambe le parti siano uguali, che la situazione sia simmetrica, che ti stai difendendo da un’aggressione con un’altra aggressione. La chiamano la normalizzazione del conflitto. Ronnie combatte contro questo e ha le idee chiarissime. Le due parti non sono uguali. Israele è uno stato di occupazione, la Palestina è occupata.
Michel Warschawski è uno dei fondatori dell’Alternative Information Center. Ci riceve la mattina in un ufficio nel centro di Gerusalemme. E’ un ebreo israeliano decisamente illuminato, attivista da oltre trent’anni. Lavora per favorire la cooperazione tra ebrei israeliani e palestinesi. Parlare ai palestinesi in ebraico e agli ebrei in arabo, è simbolicamente la sua missione. E poi documentare, informare, diffondere un messaggio alternativo a quello imperante. Odia sentir parlare di processo di pace. Non c’è alcun processo di pace, dichiara. E’ un’illusione, è virtuale. Il processo di colonizzazione è l’unica cosa reale. Alle sue spalle è appesa una pianta del West Bank, di mille colori. I confini che tagliano questa terra, tortuosi, fissati, rifissati e continuamente modificati. Le aree A, B e C in cui è divisa a seconda che sia sotto il controllo delle autorità israeliane, palestinesi o di entrambe. I centri palestinesi sono macchie gialle su un fondo blu, lo stato di Israele. Ma non c’è continuità. Ogni macchia gialla è isolata da strade blu: segno della penetrazione di una spinta materialmente colonialista. E poi ci sono le colonie, macchie arancioni che compaiono tra il giallo e il blu. E’ un sistema così complesso, ci dicono, che devi rinunciare a comprenderlo fino in fondo. E’ appositamente complesso, perché tu alla fine ceda, e smetta di provare a comprenderlo. Che tu sia palestinese, che tu sia italiano, rinunci a comprendere. Ti sposti lungo il confine del muro, alzi lo sguardo e lo vedi correre lontano e non sai dove sei: Israele o Palestina? La commistione di insediamenti israeliani e palestinesi impedisce concretamente la creazione di uno stato israeliano o palestinese. Mancherebbe la necessaria continuità ad entrambi, per potersi definire stati. E allora uno dei due, il più debole, deve sloggiare. Così si sosteneva nel ’48 e ancora si provava a fare nel ’67. Oggi non sarebbe possibile una simile manifesta repressione, ci sarebbe una sollevazione internazionale. E allora Israele pensa a soluzioni futuristiche, uno stato tridimensionale. Ascoltiamo con un certo shock. L’idea, già in atto, è realizzare ponti che colleghino insediamenti di coloni israeliani senza toccare quelli palestinesi e tunnel scavati nelle montagne che passino sotto villaggi palestinesi senza nemmeno sfiorarli, o vederli. Uno stato sopra all’altro. Così Israele spende milioni e milioni di dollari per estendere il proprio territorio tenendolo separato dalla Palestina. Ci sembra un progetto assurdo, sofisticato e inconcludente. Michael lavora per decolonizzare la Palestina e ci confessa, sinceramente, che significa prima di tutto decolonizzare se stessi. Tornare a pensare che prima del ’48, in questa stessa terra, arabi e ebrei vivevano in pace.
Ora ne sappiamo molto di più. Cominciamo ad entrare nei dettagli di questa ingarbugliata situazione. Lontani dall’avere le idee chiare sull’evoluzione di questa storia, intuiamo sempre di più la portata gigantesca delle cause e degli effetti e chiediamo a Ronnie e Michael di riportarci sulla terra. Cosa possiamo fare noi? La risposta è unanime: BDS. E’ una chiamata al mondo. Boicottare Israele e ogni investimento che ne sostenga le intenzioni e i fatti, e sanzionarne le violazioni. E’ una questione di giustizia. Ed è l’unico concetto che ci sembra chiaro.