Lo scorso 27 gennaio è scomparso il grande Pete Seeger: cantante, compositore, attivista politico e sostenitore dell’area più radicale della sinistra americana, è stato uno dei massimi autori della canzone di protesta degli anni Cinquanta e Sessanta.
Il Cinema Palazzo, insieme al Circolo Gianni Bosio, vuole ricordarlo con una serata tributo fatta di voci, visioni e musica che coinvolgerà lo storico Alessandro Portelli e tantissimi artisti: Giovanna Marini, Mariano De Simone & Edoardo Martinez, Hammer Folk Music Group, Dario Toccaceli, il Coro Multietnico Romolo Balzani, The Sessions Voices e alcune Tedeschini Lalli.
Attraverseremo i suoi 94 anni viaggiando nell’America del secondo dopoguerra e del maccartismo, passando per gli anni caldi del folk e delle lotte, sino ad arrivare alla più recente collaborazione con Bruce Springsteen (che, insieme a Bob Dylan e Joan Baez, fu fortemente influenzato dalla musica e dai testi di Seeger).
Voce narrante di questo viaggio: lo storico Alessandro Portelli, che si alternerà sul palco con gli artisti e i cantanti che proporranno brani originali di Pete Seeger.
Vi aspettiamo venerdì 14 febbraio alle 21:00
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Di seguito riportiamo uno stralcio dell’articolo di Alessandro Portelli “I giorni cantati di Pete Seeger” pubblicato su Il Manifesto lo scorso 29 gennaio:
“«Dicono che l’umanità non sopravviverà a lungo, ma io vorrei sapere che cos’è che li fa essere così sicuri. L’ora più buia è sempre quella prima dell’alba, si sta facendo mattino, e io so che possiamo ancora avere singing tomorrows», domani fatti di musica, «giorni cantati». Così cantava Pete Seeger, e questa è stata la sua lezione per quasi ottant’anni di musica e di impegno. Nel corso della sua vita ha cantato le canzoni dei minatori e degli operai(Which Side are You On?), gli spiritual di lotta del movimento per i diritti civili (We Shall Overcome), la protesta contro la guerra del Vietnam (Waist Deep in the Big Muddy), la mobilitazione per la salvezza dell’aria e dell’acqua della sua terra (My Dirty Stream); ha composto memorabili canzoni di libertà e speranza (If I Had a Hammer, Where Have all the Flowers Gone). Ma il senso politico della sua opera era ancora più radicale: stava nella profonda fiducia, così profondamente americana e così intrinsecamente classista, in quell’umanità di lavoratori, operai, contadini, gente comune che ha inventato la musica popolare e che costituisce la vera speranza di un futuro mattino dopo queste notti di tenebra.
Per questo, faceva politica anche se cantava le canzoncine per bambini, le ballate epico-liriche affondate nel Medio Evo, o quei canti religiosi fatti per essere cantati insieme, da cui poi è venuta fuori tanta canzone operaia e sindacale. Faceva politica in primo luogo perché ribadiva la dignità e la presenza storica di coloro che avevano creato e trasmesso quei canti. Ma faceva politica anche perché voleva che quei canti, sovrastati dal rumore mediatico, ridiventassero bene comune, e ce li insegnava. Musicista sofisticato, li riproponeva in forma apparentemente semplice, che ti faceva sentire che tutto sommato avresti potuto cantarli anche tu; e in tutti i suoi concerti insegnava le canzoni e le faceva cantare, non per una retorica di «audience participation» ma perché chi le aveva cantate con lui in concerto se le sarebbe riportate a casa e le avrebbe conservate in sé. Il suo primo libro era un manuale per insegnare a suonare il banjo: la musica, insomma, era qualcosa da fare, non solo ascoltare; ed era un modo per ritrovare, tutti, la propria voce e farsi sentire.”
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