Ospiterebbe a casa sua un extracomunitario?

Spunti di riflessione dal film di RezzaMastrella “Milano, Via Padova“.

Ospiterebbe a casa sua un extracomunitario?” è l’interrogativo paradossale su cui si basa il lungometraggio ‘Milano, via Padova‘, ultimo lavoro cinematografico di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, in programmazione dall’8 al 15 gennaio al Nuovo Cinema Palazzo dall’8 al 15 gennaio.

Antonio Rezza e Flavia Mastrella riprendono in mano microfono e telecamera e ritornano, come ai vecchi tempi di Troppolitani, a condurre interviste a corpo libero. Questa volta lo scenario è diverso, le contingenze storicamente differenti: dai luoghi affollati di Roma ci si sposta a Milano, nella vivacissima Via Padova, citata più volte dai circuiti mediatici come quel quartiere un po’ Molenbeek e un po’ Brooklyn.

Il sodalizio trentennale del duo trasforma l’opera filmica in un viaggio esperienziale e i suoi contenuti in esercizi d’intelletto critico. A parlare saranno le testimonianze dei residenti di Via Padova, strada simbolo di quella zona di Milano racchiusa tra viale Monza e Crescenzago, punto di riferimento della città multietnica e interculturale. La lunga strada che collega la zona dello shopping di piazzale Loreto all’hinterland milanese diventa oggetto d’inchiesta per Rezza e Mastrella, che la percorrono a bordo del bus 59, il mezzo che viene preso da chi tutti i giorni vive il quartiere e le sue contraddizioni.

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La zona, ormai soprannominata NoLo – ovvero North of Loreto – è cresciuta negli anni Sessanta come quartiere operaio, popolandosi di immigrati provenienti soprattutto dal meridione d’Italia. Negli ultimi due decenni, soprattutto negli anni Novanta, accanto ai residenti italiani, il quartiere ha iniziato ad essere abitato anche da persone provenienti da Paesi diversi.

Via Padova, considerata il fulcro del quartiere e caratteristica per la sua multiculturalità, è una strada lunga e popolosa, teatro di abbandono e quindi di microcriminalità. Una strada in cui girare da soli o passeggiare la sera viene considerato pericoloso. Eppure via Padova negli ultimi anni sta subendo una nuova trasformazione: una sorta di riconversione che, come spesso avviene, potrebbe condurre a una diversificazione ancora più estrema dei connotati del territorio e alla rivalutazione di esperienze già esistenti.

Rilevante, infatti, è come tale trasformazione abbia esercitato il proprio impatto su alcuni aspetti della vita quotidiana: dalla disparità dell’educazione scolastica ad un mercato immobiliare discriminatorio, da manifestazioni di razzismo e xenofobia al crescere di atteggiamenti di separazione e segregazione, che ostacolano la coesione sociale e rendono conflittuale la coesistenza di culture diverse.

Il mutamento, inoltre, non sembra rispondere alle esigenze di politiche comuni espresse dal quartiere, dal momento che le questioni sociali e abitative e le politiche legate all’accoglienza e all’integrazione non hanno alcuna priorità sul processo di gentrificazione già in atto, e che tende ad accelerare.

Negli ultimi tempi il quartiere viene descritto, da un lato, come una nuova meta per investimenti e risorse in grado di risollevare il mercato immobiliare e provvedere alla rivalutazione della zona; dall’altro, all’indomani dell’ennesimo fatto di cronaca nera, via Padova e dintorni diventano il capro espiatorio ideale per tornare a parlare di degrado, del suo contrario dall’esistenza a tutt’oggi incerta: di decoro, di spaccio, di quanto siano pericolose le periferie abbandonate, di quanto ostinatamente sfuggano all’attenzione della maggior parte politici, assessori e dirigenti comunali.

050055530-5de54bc4-d1f3-41c5-88b8-88142bcefb94Non altrettanto spesso si dibatte e si informa l’opinione pubblica su quanto facilmente, attraverso il narcotico dei temi della pubblica sicurezza e del degrado urbano, il discorso istituzionale ambisca a lasciar filtrare una maggior malleabilità nell’accettare politiche securitarie fatte di dispositivi di sicurezza urbana, di presidi dell’esercito, di misure di sorveglianza sempre più coercitive e di forme crescenti di controllo.

Non vogliamo mettere sullo stesso piano questioni diverse, come quella del razzismo e della gentrificazione, ma teniamo a porre l’attenzione sulla complessità dei diversi temi che devono intervenire quando si parla della vita di un quartiere. Che è una vita storica, una vita sociale, una vita architettonica: nessuna di queste dimensioni può e deve essere sottovalutata.
Rinunciare ad impegnarsi in questo tipo di valutazioni presuppone la convinzione di voler disporre una città in base a criteri di convenienza e di facile competenza, e si risolve nel privarsi dell’onere e della volontà di entrare nella città che esiste oggi per non pregiudicare la città che potrebbe essere domani. Un lavoro in funzione del risultato, che tiene in poco conto i processi già in atto. Un lavoro che si occupa del perché, mentre trascura il come.

La critica che vorremmo sollevare non è solo marginale alle politiche di controllo esercitate in una città come Milano: riconosciamo il rischio che si corre quando si avanzano dall’alto trasformazioni urbanistiche, e conseguentemente sociali, in un qualsiasi quartiere che abbia naturalmente caratterizzato i propri connotati. Il prodotto ultimo delle mutazioni dirette dai vertici, senza il concorso delle popolazioni presenti sul territorio, è sempre un fortissimo senso di estraniamento sociale e culturale per gli abitanti, che già devono fare i conti con quello che certo appare – nell’accezione positiva – un laboratorio sociale, ma che nella realtà quotidiana rimanda ben più spesso a una zona di disagio, chiusa in un’area abbandonata e periferica.

È importate ricordare che la situazione di povertà e marginalità in cui molti quartieri vivono non è mai da correlare alla composizione sociale. Non esisterebbe alcun processo di gentrificazione o di ghettizzazione, se non vi fosse la precisa volontà politica di mutare il quartiere non tenendo conto di chi lo vive, di chi lo attraversa. Perché costringere verso l’omogeneità e l’omologazione ciò che per natura è variegato e multiforme?

Via Padova è tanto spigolosa quanto risulta un interessante oggetto di sperimentazione e tutto questo emerge anche nel documentario, attraverso l’arte, le tradizioni e il racconto dell’attuale senso d’insofferenza, che a volte si trasforma in razzismo vero e proprio. Quello della cronaca e dei mass media è un racconto verosimile, che manipola le questioni e costruisce dibattiti su sensazioni scomposte, montate ad arte, che sottrae all’analisi quei presupposti indispensabili per informare l’opinione pubblica sulla concretezza dei vuoti istituzionali e sulle diverse miopie amministrative.
Rezza e Mastrella applicano allora il loro estro creativo nel condurre un’indagine più antropologica che giornalistica, proponendo una visione surreale dell’esistente. Le interviste a corpo libero vengono fatte con consumata spontaneità, innescando e non sfuggendo ai paradossi, lasciando che le reazioni e i sentimenti degli abitanti abbiano libero sfogo, traducendo le risposte in strumenti nuovi e inesauribili di interpretazione della realtà.

Oggetto d’inchiesta sono le vite anonime dei passanti, le parole dette anche se non pensate, quelle non dette ma invece fortemente pensate, quelle necessarie, quelle non necessarie. Le parole che quasi mai emergono nelle dinamiche televisive. Con volontarie provocazioni, assurde divagazioni e pignole generalizzazioni, Rezza e Mastrella riportano al cinema un’originalità che lotta con i cascami e i cliché del linguaggio televisivo, restituendo genuina genialità al rapporto d’inchiesta e confermando la loro cifra stilistica votata all’indipendenza e all’avanguardia.
La natura nell’inchiesta riprende le origini di ‘Trappolitani’, che – nelle parole dello stesso Rezza – è stato il lavoro che ha dato una svolta decisiva alla sua espressione teatrale. Infatti anche qui importantissima è l’interazione con il soggetto intervistato, che si ritrova spesso a rispondere alla paradossale domanda “ospiterebbe mai un extracomunitario a casa?”. Naturalezza e spontaneità sono ora compromesse, ora confermate da frasi fatte e opinioni tipiche dell’indifferenza e dell’incomprensione metropolitane.

Dal documentario emerge chiaramente la difficoltà di costruire un quartiere in uno scenario di convivenze forzate, dove l’autoctono, vicino di palazzo del migrante, non è reso consapevole della reale possibilità che un italiano e un migrante possano avere le stesse aspettative e la stessa speranza di vita, in un ambiente in cui si stenta a credere che per entrambi il lavoro, o la casa, siano un diritto. La libertà di autonomia e di scelta dunque è sottratta tanto ai nativi quanto ai migranti: la difficoltà a rimanere in tale convivenza è di entrambi e resterà di entrambi, se gli attori esterni e i governanti non saranno in grado di leggere le diverse esigenze, e di intervenire in maniera paritaria.

Oltre ai contenuti del lungometraggio, anche la forma di diffusione del lavoro è tanto originale quanto d’avanguardia: dopo quattro anni di lavoro e produzione, il documentario è realizzato e completo e segue una distribuzione del tutto indipendente. La logica è polarmente contraria alle attuali dinamiche commerciali della distribuzione, che nelle sue vesti ufficiali non offre spazi, a meno di avvalersi di criteri che il più delle volte coincidono con il gradimento del pubblico e l’entità delle visualizzazioni, più che con i contenuti proposti. La scelta di Razza e Mastrella è stata quella di diffondere il lungometraggio negli spazi indipendenti. Decidere di non essere legati ad un cappio commerciale è possibile, come è possibile creare valide alternative di diffusione. Il duo promuoverà il documentario durante i propri spettacoli e in tutte quelle occasioni in cui sarà possibile raggiungere un flusso ed un pubblico.
Dal teatro Vascello all’Apollo 11, in cui hanno presentato parte del loro repertorio teatrale, Rezza e Mastrella continuano a proporre la visione del nuovo lungometraggio attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione sia in grado di fuoriuscire dai meccanismi odierni della distribuzione, e a dimostrare che i circuiti ufficiali hanno sempre meno competenze e sempre meno voglia di proporre una cultura libera e indipendente.

Il Nuovo Cinema Palazzo è uno spazio che esiste per proporre modi liberi, nuovi, di fare arte e cultura, che vuole riconoscersi in essi: per questo è lieto di ospitare e sostenere la proiezione della produzione RezzaMastrella per un’intera settimana – dall’8 al 15 gennaio – e accoglie volentieri la loro proposta di farsi canale di diffusione per il loro lavoro.

Info sulle proiezioni: qui

 

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