Jenin, Jenin e Arna’s Children sono due pellicole cinematografiche che raccontano una delle tante tragiche verità del popolo di Palestina. I luoghi, ancora una volta, acquistano significati nuovi. Camminando per le vie di Jenin immagini vecchie e nuove si sovrappongono nella testa alla maniera delle Polaroid, trovando valenze altre: case ai miei occhi sventrate ora sono ricostruite, strade nei miei ricordi distrutte ora sono risistemate, solo i fori dei proiettili nei muri e nei balconi ricordano l’assedio del 2002. Un gigantesco cavallo segnala l’inizio del campo profughi di Jenin. Ricorda terribilmente quello presente nella Guernica di Picasso, se non nella forma, sicuramente nell’intenzione: un artista tedesco lo ha assemblato con pezzi di autovetture distrutte durante l’assedio. Metafore entrambe della cieca violenza delle armi, del loro offendere l’umanità, del loro violare corpi e pensieri. Dopo un giro per le vie del campo, fra bimbe che escono da scuola e uomini che riparano automobili, a destra si apre l’ingresso del Freedom Theatre, il teatro di Arna e Giuliano… Se l’arte nell’epoca moderna – nella misura in cui è in grado di raccontare la realtà da un punto di vista altro e di svelare i modelli sociali, distruttivi ed alienanti, imposti dai vincitori – ha una valenza in potenza rivoluzionaria, allora il Freedom Theatre è tutto questo. È strumento culturale di creazione di coscienza collettiva, è dimostrazione concreta di come esista ancora la possibilità di costruire relazioni sociali basate su libertà e solidarietà, è potentissima arma non violenta di resistenza alla barbarie della guerra.
È forza creatrice di umanità nuova. Dalle sue mura, ricostruite nel 2007 e in seguito oggetto di tre tentativi di incendio doloso, traspare tutto questo. Il sogno di libertà di Arna e Giuliano continua a vivere…
La mamma di Hamed è una signora minuta di nero vestita, con due occhi tristi ma determinati che spuntano dietro ad un paio di occhialetti ovali. Insegna ad altre donne palestinesi l’arte del cucito, il tutto attraverso un’associazione creata con l’aiuto del figlio. Hamed non c’è più. È stato ammazzato. È lei che ci racconta la sua storia. Hamed aveva deciso di utilizzare la video camera come strumento di resistenza, da giornalista filmava i soprusi compiuti dall’esercito israeliano durante le operazioni di “bonifica” del territorio. Durante una di queste è stato freddato con un colpo al cuore. La mente ritorna ai racconti di Heidi, di Stefania, di Rosa, di Patrizia… I gesti, le espressioni, le parole per raccontare queste tragedie sono le stesse, già tante volte ascoltate, eppure sempre nuove. Esattamente come è la stessa la richiesta di giustizia: negata in questo lembo di terra. Anche la forza generatrice di vita delle donne è la stessa: anziché cedere ad un comprensibile sentimento di vendetta, che le avrebbe però disumanizzate, queste madri hanno trovato la capacità di creare qualcosa di concreto attraverso cui continuare la lotta dei figli, mediante cui preservarne la memoria… Carlo, Federico, Renato, Dax ed ora Hamed: vittime della violenza repressiva dello Stato, qui come in Italia. Raccontare di loro qui, a un giorno dal settimo anniversario dall’assassinio di Renato Biagetti mi lascia la sensazione di aver chiuso l’ennesimo cerchio di questo viaggio.