A Nablus dormiamo in un ostello appena fuori dalla città vecchia. E’ un bell’appartamento con due camerate. Non c’entriamo tutti e come un’ondata di vita dilaghiamo su cuscini, divani e materassi buttati per terra. I ragazzi di Nablus, attivisti dell’associazione Human Supporters sono felici di accoglierci, di conoscerci, di passare del tempo con noi, di condividere le loro fotografie, i loro video, le loro storie. Non hanno mai visto Gerusalemme, i più fortunati di loro sono stati ospitati per qualche settimana da associazioni europee nell’ambito di programmi di cooperazione, ottenendo un visto per l’espatrio dopo rifiuti e attese durati mesi. Hanno visto il mare in Francia, ma mai nel loro paese. Quattordici check points circondano Nablus. Samara ci racconta che per andare a trovare i suoi genitori, che abitano in un villaggio che dista pochi chilometri, ci mette cinque ore, quando ci riesce. Una volta è andato a Gerico e sulla strada si è fermato in un bar per comprare una Coca Cola. Ha tirato fuori il portafoglio e la cameriera ha visto la sua carta d’identità. Se sei palestinese e vivi nel West Bank hai un documento particolare, di un colore particolare, immediatamente riconoscibile. I tuoi dati sono scritti in ebraico e in arabo, e sotto al tuo nome è specificata la tua religione. E’ assurdo, ma ormai ci siamo abituati. E’ esplicito come sia la religione, in questa Terra Santa, il parametro che meglio definisce la tua identità. La cameriera sulla strada per Gerico gli ha chiesto fredda: “da dove vieni?”, “dalla Palestina” ha risposto Samara. “Non c’è niente che si chiama Palestina” ha detto lei e la Coca Cola non gliel’ha più portata. Tra i ragazzi di Nablus c’è un fotografo che lavora come volontario sulle ambulanze. Ci viene a trovare a casa una sera. Samara ci ha preparato la cena: hummus, cavolfiori e carne conditi con la tahina, insalata e pane a volontà. Mettiamo un po’ di musica, sul reggae balliamo, ridiamo e proviamo a coinvolgere i ragazzi. Ma il giovane fotografo non partecipa, è in cortile a sistemare sul tavolino un proiettore aspettando con ansia di farci vedere il suo lavoro. La musica ci appare fuori luogo, spegniamo lo stereo e ci sediamo per terra davanti a lui, con lo sguardo rivolto alle immagini proiettate male su un muro di mattoni. Scorrono fotografie di scontri violentissimi, feriti, pestaggi, irruzioni nelle case, nelle scuole, distruzioni, gas lacrimogeno, a Nablus e nei villaggi vicini, mentre lui ci racconta la storia che c’è dietro ad ogni fotografia. Non sono scene tratte della seconda Intifada, c’era lui dietro alla macchina fotografica. E’ il 2013 la data in basso a destra di gran parte delle fotografie. Quello che vediamo è quello che sta accadendo in Palestina, adesso.