Il primo campo rifugiati che visitiamo è il New Askar Refugee Camp, vicino Nablus. E’ grande 500 metri quadrati e ospita 7000 persone. Il 70 per cento sono disoccupati. La povertà è dilagante. Immondizia dappertutto e strade larghe un metro che serpeggiano tra le case. Sui muri, manifesti con ritratti di giovani uomini prigionieri da decenni o uccisi. I martiri. Le case sono attaccate l’una all’altra e non c’è privacy. Se torni a casa incazzato, e ne hai tutto il diritto, e magari parli con tuo padre e gli rovesci addosso la tua rabbia imprecando contro l’esercito e minacciando una reazione violenta qualcuno potrebbe sentirti ed è pieno di spie palestinesi al soldo dell’esercito israeliano. La guerra tra poveri nasce e cresce in questo stato di miseria. Puoi farti anche vent’anni di galera per aver minacciato di farti esplodere a Tel Aviv. Ma stavi parlando con tuo padre, eri incazzato, non dicevi sul serio. Ti possono arrestare sostenendo di averti visto lanciare una pietra, e magari non è vero. Ti possono arrestare se hai appena quattordici anni. Ti vengono a prendere a casa, nel cuore della notte, ti bendano gli occhi, ti portano non sai dove, e ci rimani per ore, terrorizzato. Ti distruggono i mobili, la casa, e per passare da una casa all’altra non usano la porta, ti fanno un buco nel salotto e sono nel salotto del vicino. Oppure finisci in cella e una legge consente di trattenerti per sei mesi senza alcuna evidenza di reato. Passano sei mesi e il giorno della scarcerazione ti sei preparato, stai per uscire, arrivi alla porta del carcere e ti dicono che devi rimanerci per altri sei mesi, senza alcuna evidenza di reato. Si chiama legge di detenzione amministrativa. E poi c’è un’altra legge, agghiacciante. Anche i morti vengono processati e i cadaveri scontano la pena, congelati, prima di essere restituiti alle famiglie dopo dieci, vent’anni. Nel 2001 il New Askar camp è stato bersaglio di un attacco violentissimo. Il piccolo ospedale che sorgeva sul limite dell’area abitata, che si estende sulla cima di una collina, è stato distrutto e ora è un orfanotrofio. Vietato ripristinare l’ospedale. Tanti arresti, tanti morti. Il New Askar camp ha provato a resistere, anche con le armi. Non puoi aspettarti di trovare solo pacifisti qui, e anche il tuo pacifismo, la tua cultura democratica, la tua etica non violenta, lo giuro, vacilla. Chi abitava sul bordo della collina ha preferito spostarsi nelle case all’interno del campo perché arrivava dall’esterno una pioggia di artiglieria pesante. Camminiamo sulla strada che costeggia la collina e ci passa davanti un cavallo bianco, una visione surreale, mentre chi ci accompagna racconta la storia di un uomo colpito alla testa proprio qui, mentre provava a raggiungere un fazzoletto di terra coltivata sulla pendice. Durante l’assedio del 2001 i feriti non poterono raggiungere gli ospedali e i morti non poterono raggiungere i cimiteri. Nel giardino d’infanzia in una casa tra i vicoli del campo, dove c’era un po’ di terra, si decise di seppellire sei persone. Ci sediamo per terra davanti a queste tombe, ma lo spazio è talmente poco che molti di noi rimangono in piedi. Rimaniamo in silenzio, come fossimo in un cimitero. Facciamo fatica a pensare che qui abita qualcuno, che si affaccia dalla finestra ogni mattina e vede sei tombe nel giardino, sotto l’albero di fichi. La visita del campo dura un’oretta. Il resto della giornata lo passiamo nel centro culturale Keffiyeh in compagnia di una ventina di ragazzi. Ci raccontano delle loro iniziative: hanno corsi di danza tradizionale, la dabka, e un gruppo di ballerini tra i migliori della Palestina; giocano a calcio e hanno perfino una squadra femminile fortissima; organizzano gite durante l’estate in giro per il West Bank, per far conoscere ai bambini il loro paese, o quanto ancora ne resta. Mangiamo con loro, si finisce a insegnare le parolacce in italiano e cantiamo Bella ciao: anche noi italiani abbiamo fatto la resistenza. Proviamo a vivere una giornata come la loro. Otto ore nella stessa stanza, la sede dell’associazione, cui si accede da una scaletta precaria in cemento da cui fuoriescono lunghi tondini di ferro. I ragazzi del campo fumano parecchio, sugli stretti gradini della scala. Noi scendiamo, in cerca di spazio. Ci accendiamo una sigaretta nel vicolo, seduti su un muretto. Spalle al muro e sessanta, settanta centimetri davanti ai nostri occhi c’è il muro di un’altra casa. Non è il caldo, qui manca l’aria.