Ti colpiscono per la loro innocenza, i bambini. Ti colpiscono con i loro sorrisi, i bambini. Ti colpiscono per i loro abbracci, i bambini. Ma non qui. In Palestina ti accolgono ad insulti e pietrate. D’altronde, come non giustificarli… per loro potresti essere un israeliano, un colono,un occupante. A Nablus come a Betlemme. Proprio qui Naji ci accompagna a vedere il muro,serpente di acciaio e cemento che si snoda fra le case palestinesi dividendo, qui come a Tulkarem, le abitazioni dalla terra, le famiglie al loro interno, uomini da donne, mogli da mariti, madri da figli. In realtà del muro vediamo poco o nulla, qualche cosa giusto di lontano. Vicino è impossibile andare. Bambini fra gli otto e i dieci anni lanciano sassi oltre il muro. Ancora una volta Intifada. Poi ci vedono. E ci accolgono con lo stesso dono. Sassi, pietre e insulti. Non ci colpiscono, non sono in grado di farci male, sono pur sempre dei bambini. Ma è comunque agghiacciante. Naji va a parlargli, a prendersi cura di loro e di noi. Ed allora alle pietre si sostituiscono sorrisi, ai pugni chiusi mani aperte, agli insulti saluti. E poi, d’un tratto ricomincia il gioco, il lancio oltre il muro, per colpire un nemico invisibile e tuttavia presente.
Ad Hebron, città fantasma occupata da 400 coloni e 4000 soldati, siamo ospiti a casa di Hashem. Abita in mezzo alle colonie, praticamente ne è circondato, sotto di loro, in un’assurda quotidianità che dura da anni. I coloni sputano, pisciano, lanciano pietre contro la casa di Hashem; gli avvelenano l’orto, gli tagliano i tubi dell’acqua, gli impediscono di uscire. A lui ed ai suoi sei figli. Loro, mentre vanno a scuola, vengono accompagnati dai coetanei israeliani, che li insultano, li picchiano, tirano loro sassi, annunciano l’imminente fine di tutti gli arabi, gli promettono il gas. A questa quotidianità malata i figli di Hashem come possono resistere? Come possono restare umani? Giocando. O almeno provandoci. Ed è quello che abbiamo fatto. In un corridoio del loro giardino, lungo tre metri e largo meno di uno, stando attenti a non varcare l’invisibile soglia che esiste con le colonie sovrastanti, pena il diventare bersagli di lanci. In questo lembo di libertà apparente giochiamo a pallone. Per dieci minuti immaginiamo di essere su un prato verde, con l’erba perfettamente tagliata e le divise da gioco… ed il pallone che rotola perfetto… Ma poi, come Cenerentola, ritorniamo alla prigione, alla casa con la scritta gas the Arabs, con i proiettili conficcati nei muri… Qui l’infanzia non è rubata – per rubare qualcosa è necessario che questo qualcosa appartenga a qualcuno – ma negata. Negato il diritto al gioco, negato il diritto al sogno, negato il diritto all’abbraccio, alla speranza. Questi bambini diventeranno adulti senza mai essere stati realmente bambini, già pieni di tanto, troppo, dolore.
Le farfalle assomigliano ai bambini, da crisalidi si trasformano in un paio di ali che gireranno il mondo, ma dentro hanno già il seme di ciò che sarà. Oggi le vie di Betlemme, durante la Jalla Jalla Parade, si sono riempite di decine di coloratissime farfalle. Assieme a loro abbiamo sfilato per la città, contaminandola con la loro, la nostra, gioia di vivere; con la nostra, la loro, voglia di opporsi all’occupazione,di resistere alla barbarie. Come dopo un bagno nel fiume Lete, abbiamo ripulito, tutti e tutte assieme, le nostre menti ed i nostri corpi da tutto il dolore provato in questi giorni. Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. Tutto questo non è mai stato vero come oggi. I fiori della ribellione non violenta nascono proprio dalla e nella Naqba, la catastrofe.
È così che vivono l’infanzia i bambini e le bambine palestinesi. A loro, a tutti loro, durante l’ultimo abbraccio ho promesso di tornare. Per continuare il sogno di una vita normale. E tornerò. Lo devo a me stesso, ma soprattutto lo devo a loro.