2/9/2013 Tel Aviv, Aeroporto Ben Gurion, ore 5.30 am. In fila per i controlli di sicurezza. “Si sposti di là, venga di qua. Dove deve andare? Perché è stato in Israele? Ha conosciuto qualcuno? Ha ricevuto regali da qualcuno? Ha fatto lo zaino? Qualcuno l’ha aiutata a fare lo zaino? Porta armi con sé? Perché è stato in Israele? Viaggia da solo? Ha armi o liquidi nello zaino? Perché è stato in Israele?” La gragnola di domande dell’operatrice della sicurezza israeliana. Me la cavo discretamente al primo interrogatorio, eppure qualcosa non deve aver funzionato (forse la barba o lo stile approssimativo o lo zaino da mochilero) perché la ragazza mi appiccica addosso l’etichetta gialla numero 5. (Durante i primi controlli il passeggero viene bollato con un rank di pericolosità che va dall’1 al 6. Poi c’è il 6T, che significa che rappresenti una seria minaccia per lo Stato e devi quindi esser passato al vero e proprio setaccio.) Ok, in pratica dopo Bin Laden ci sono io per Israele. La danza è appena iniziata. Respiro profondo. Mi ordinano di mettere lo zaino su un carrellone, primi controlli, in realtà sono un 5, quindi dopo il primo step mi viene indicata una fila diversa dal normale iter. Attendo 10 minuti, dopodiché un’altra ragazza della sicurezza israeliana mi fa cenno di avanzare. Mi svuota lo zaino con aria abbastanza schifata – in effetti la preparazione della borsa mi aveva portato a mettere in alto tutta la roba sporca, una sorta di difesa non violenta – apre le tasche e cerca, forse qualche bomba, forse solo dei segni che giustifichino questa ‘cura’. “Si sposti di qua, venga di là. Porta armi con sé? Perché è stato in Israele?” Rispondo uguale, il tono della sicurezza è più sprezzante di prima, fingo serenità. Passano 5 minuti, la ragazza con un gesto mi ordina di rimettere nello zaino tutte le cose che lei ha tolto. Lo faccio il più velocemente possibile. Lei stessa mi fa cenno di seguirla e mi accompagna passo passo al check-in: niente fila normale per me. Ha uno sguardo spazientito, come se a causa mia stesse perdendo tempo, le direi che sono capace di fare la fila anche da solo, però non la prenderebbe con un sorriso. Attendo, poi tocca a me. “Metti lo zaino, togli lo zaino. Finestrino o corridoio?”. “Corridoio, grazie”. Riprendo lo zaino, sempre lei, la ragazza con l’espressione dura e sprezzante mi accompagna a portare il bagaglio in un’altra stanza dove ordina: “Prendi il bagaglio e mettilo su quel carrello.” Eseguo gli ordini. Inizio a sentire come una colpa d’essere venuto (anche) in Israele, ma non le dico nulla. Non mi lascia, fa cenno di seguirla e con l’indice mi indirizza: “Go there, have a nice flight“. Wow, finale romantico. Il binario unico che mi è concesso porta ad altri controlli. In fondo sono un 5. “Svuoti il bagaglio a mano. Cosa c’è nella tasca? Computer? Telefoni? Si sposti di qua, venga di là. Perché è stato in Israele? Ha liquidi nello zaino?” “Ok, può andare di là”. Guardo l’orologio, sono passati 62 minuti dall’inizio della fila: da più o meno 50 mi sento detenuto, colpevole, riprovevole, pericoloso. Sono un 5. Controllo passaporti: attendo. “Buongiorno. Destinazione finale? (Indica il passaporto) Questo è lei? Perché è stato in Israele? Dove è stato? Cosa ha visto? Quanti giorni? Chi ha conosciuto? Le è piaciuto? Dove è stato? (Indica il passaporto). Questo è lei? Perché è stato in Israele? Cosa ha visto? Scusi dicevamo, Perché è stato in Israele?” Sorrido. Le mie risposte sono sempre le stesse, troppe interrogazioni al liceo per farmi fregare così. Sono le 6.45 del mattino e una rabbia discreta monta dentro. Il timbro si abbatte sul biglietto aereo. “Grazie, arrivederci, buon viaggio”. Tiro un lungo sospiro di sollievo, mi dirigo verso il gate, sento come un senso di liberazione che non scalfisce però l’oppressione. Colpevole di essere stato (anche) in Israele. In fondo sono un 5: una spanna sotto Bin Laden.
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